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LO SCHINDLER IRPINO Ricerca eseguita dagli alunni delle classi terze della scuola media dell'istituto nell'ambito della realizzazione del CD-Rom a.s. 2000-2001: "La Memoria è .....non ripetere gli stessi errori" |
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GIOVANNI PALATUCCI |
Giovanni
Palatucci nacque a Montella - in provincia di Avellino - il 31 maggio 1909 da
Felice e Angelina Molinari. Importante fu nella sua formazione l’autorevolezza
morale e culturale degli zii Antonio e Alfonso - che diverranno membri e docenti
dell’Almo Collegio Teologico di Napoli e superiori provinciali dei Francescani
conventuali in Puglia e a Napoli - e dello zio Giuseppe Maria Palatucci, Vescovo
di Campagna. Compì gli studi ginnasiali presso il Ginnasio Pascucci di
Pietradefusa ed il Liceo nella non lontana Benevento. Dopo la maturità, venne il
tempo del servizio militare (1930) per il quale fu destinato, come allievo
ufficiale di complemento, a Moncalieri. Nel 1932, a ventitré anni, si laurea in
giurisprudenza presso l’Università di Torino.
"Ho la
possibilità di fare un po’ di bene, e i beneficiati da me sono assai
riconoscenti. Nel complesso riscontro molte simpatie. Di me non ho altro di
speciale da comunicare". è quanto scriveva l’8 dicembre 1941 Giovanni Palatucci
in una lettera inviata ai genitori. Niente di speciale davvero, se non fosse che
quel "po’ di bene", compiuto nel più totale sprezzo del pericolo e in tempi
difficili, significò la salvezza di centinaia di ebrei; oltre cinquemila,
secondo quanto riferito dal delegato italiano Rafael Danton alla prima
Conferenza ebraica mondiale tenutasi a Londra nel 1945.
Giovanni
Palatucci era un cattolico di profonda fede; non sappiamo quali furono le sue
prime reazioni alle leggi razziali, ma da parecchie testimonianze risulta chiaro
come, via via che crebbe il pericolo per gli ebrei, egli rifiutasse di farsi
complice delle persecuzioni. Egli non volle allontanarsi da Fiume neanche quando
il Ministero dispose nell’aprile del 1939 il trasferimento a Caserta.
Rodolfo
Grani, ebreo fiumano molto impegnato nella pubblicistica del settore, promotore
di pubblici riconoscimenti in Italia ed in Israele alla memoria di Giovanni
Palatucci - che egli conobbe personalmente e della cui benemerita quanto
rischiosa opera di solidarietà in favore degli ebrei è stato diretto testimone -
ricorda un primo grande salvataggio nel marzo del 1939, attuato dall’eroico
funzionario, da lui definito "nobilissimo giovane cattolico".
Si trattava
di 800 fuggiaschi che dovevano entro poche ore essere consegnati alla gestapo.
Il dott. Palatucci avvisò tempestivamente Grani, il quale si mobilitò ed ottenne
l’intervento del Vescovo Isidoro Sain che, a sua volta, nascose temporaneamente
i profughi nella vicina località di Abbazia sotto la protezione del Vescovado.
A proposito
di Grani, nel suo appello agli ex internati del campo di concentramento di
Campagna, di cui si è detto, ci è dato leggere: "Stava nella facoltà
del Dott. Palatucci di concedere agli ebrei rifugiati dai paesi di Hitler a
Fiume i relativi Permessi di soggiorno e non una volta, quando si trattava di
qualche affare scabroso, ha dovuto combattere l’animosità dei suoi superiori: il
noto antisemita ha chiesto il mio modesto aiuto pregandomi di salvare i miei
disgraziati correligionari, rivolgendomi al competente Ministero a Roma. Ciò mi
è riuscito quasi sempre. Il dott. Palatucci dimostrava non solo nel suo ufficio,
ma anche fuori di questo, la sua costante simpatia verso gli israeliti. Si
potrebbe dire, che preferiva apertamente la compagnia degli ebrei nei luoghi
pubblici e ritrovi. Quando nel giugno del 1940 scoppiò la guerra e gli israeliti
di Fiume e dintorni furono arrestati ed accompagnati maggior parte al campo di
concentramento di Campagna, non una volta si affrettò il dott. Palatucci di
raccomandare questi disgraziati alla benevolenza del suo zio, a S. E. Giuseppe
Maria Palatucci, Vescovo di Campagna, il quale ci ha ricevuto con una squisita
gentilezza e nobilissima generosità, dimostrandoci la sua altissima umanità e
filosemitismo".
La figura di
quest’ultimo si saldò inscindibilmente, a partire dal giugno del 1940, con
quella del nipote Giovanni; il giovane responsabile dell’Ufficio stranieri
infatti, quando la via dell’emigrazione non era possibile, inviava gli ebrei
presso il campo di concentramento di Campagna affidandoli alla protezione dello
zio Vescovo.
Giovanni
dunque si rendeva conto che quel campo, pur con tutti i disagi
dell’internamento, offriva un rifugio agli ebrei assai più sicuro delle terre
jugoslave e, d’intesa con lo zio Vescovo, mise in opera ogni stratagemma per
avviare là i profughi minacciati da immediati pericoli. Per non avere ostacoli
dal Prefetto e dal Questore, presentava loro la soluzione dell’internamento
nell’Italia meridionale come rimedio per liberarsi della presenza dei profughi
che costituiva una minaccia per la sicurezza pubblica.
Ritornando a
Rodolfo Grani, anche nel suo servizio "L’opera di salvataggio del Vaticano per
gli Ebrei", pubblicato su Haboker, 10 agosto 1952, si sofferma sul suo personale
istradamento, avvenuto per interessamento del dott. Palatucci, a Campagna "dove
eravamo internati in gran massa noi fiumani". Il Vescovo Palatucci "si è reso
indimenticabile fra migliaia e migliaia di nostra gente, aiutandoci,
consolandoci con la massima generosità, facendosi fotografare con noi,
disgraziati espulsi dalla vita sociale".
Anche l’avv.
Barone Niel Sachs di Gric, che conobbe il Commissario Palatucci nell’espletare
funzioni di legale di fiducia presso la Curia Vescovile di Fiume, in una sua
lettera del 25-09-1952 indirizzata al Vescovo Palatucci, sottolineava quanto il
giovane amico sfidasse "l’ira dei suoi diretti superiori, il Prefetto ed il
Questore di quel tempo". Nel contempo il legale annotava la "riconoscenza
imperitura dei beneficati dell’ottimo mio caro amico, suo esemplare nipote, mai
abbastanza rimpianto", e che egli aveva avuto "la fortuna" di conoscere.
Parlando, un giorno, con il suo "indimenticabile" amico, il quale avrebbe "a
guerra finita dovuto entrare a far parte" del suo "studio di avvocato a Fiume",
ricorda che egli gli disse pieno di amarezza: "ci vogliono dare a intendere che
il cuore sia solo un muscolo e ci vogliono impedire di fare quello che il cuore
e la nostra religione ci dettano. Queste nobili parole del nostro
indimenticabile martire risuonano dopo tanti anni ancora nelle mie orecchie e
L’assicuro, Eccellenza Reverendissima, che nella lunga mia carriera non ho mai
incontrato un più grande gentiluomo e galantuomo di Suo nipote".
Giovanni
Palatucci, responsabile dell’ufficio stranieri in una delle più calde zone di
confine, era probabilmente un ingranaggio della burocrazia che, ogni qual volta
doveva funzionare a danno dei profughi ebrei, si inceppava.
Un’altra
testimonianza del suo modo di agire, delle sue scelte e della sua sensibilità, è
senza dubbio il racconto dell’ebrea austriaca Rozsi Neumann, pubblicato nella
rivista "Israel" (n. 39 18 giugno 1953), salvata con suo marito. Essi - il
marito era già scampato a Dachau - erano di provenienza austriaca e avevano
tentato di entrare clandestinamente in Jugoslavia; qui furono però catturati
dalla gendarmeria e consegnati alla Questura di Fiume, che li rinchiuse nel
carcere di via Roma. I coniugi temettero per un loro "rimpatrio in Austria da
parte della Questura, il che avrebbe voluto dire andare a morte sicura". Avevano
prima sentito molto parlare del dott. Palatucci e della sua opera di soccorso.
Un giorno ebbero la sorpresa di vederlo arrivare nella loro cella, in visita.
"Egli era di natura gaia". Un altro giorno, quello di Natale, ebbero una
sorpresa ancor più forte: furono portati in Questura, dove il dott. Palatucci
offrì loro un pranzo. Il funzionario aveva appreso, attraverso la censura della
corrispondenza, che la signora Neumann aveva espresso ad alcuni conoscenti il
desiderio di mangiare qualcosa di diverso in occasione del Natale. "L’emozione
fu tale che io riuscivo con difficoltà ad inghiottire", ricorda la signora,
aggiungendo che "con il suo aiuto fummo poi liberati e potemmo salvarci la
vita".
Un pensiero
di gratitudine fu poi espresso, dalla signora Neumann, allo zio, Mons. G. M.
Palatucci, con lettera del 26 giugno 1953, nella quale si parla dei
riconoscimenti che venivano tributati alla memoria del dott. Palatucci, "nobilissimo
uomo", da tutti gli ebrei da lui "tanto aiutati"; annunziando che la sua
testimonianza sarebbe stata inviata anche ad un giornale di New York, ricordava
infine che "Vostro nipote (il quale mi parlava spesso di voi) credeva che sarò
internata in Campagna e mi voleva dare per Voi una lettera di raccomandazione.
Fui però mandata a Montefiascone e così purtroppo non ho avuto l’onore di fare
la Vostra conoscenza".
"Credo che
questa mia breve narrazione" - scriveva la signora Neumann nell’articolo
pubblicato su "Israel" - "possa far conoscere la tempra di quest’uomo, che, in
tempi tanto difficili... è andato oltre il comandamento Ama il prossimo tuo come
te stesso. Il suo nome dovrà essere ripetuto con rispetto e venerazione dalle
future generazioni di Israele".
Anche
l’ebreo Carl Selan, da New York, in un articolo del 1991, ha voluto ricordare la
figura di Giovanni Palatucci: "Tutta la mia famiglia e ognuno che è sfuggito a
Hitler e agli Ustascia, ha trovato un porto di serenità in Fiume solamente per
la gentilezza e l’ammirabile personalità di Giovanni. Se non fosse stato per
lui, ben pochi avrebbero potuto rimanere vivi oggi". A proposito dell’intesa
creatasi fra Giovanni e lo zio Mons. G. M. Palatucci in favore degli ebrei,
quest’ultimo, in un’intervista fattagli in occasione della intitolazione della
strada a Ramat Gan - di cui si dirà in seguito - si sofferma su questo aspetto
che lo legava affettivamente ed operativamente a suo nipote Giovanni: "Egli
evitò la cattura di molti israeliti o facendo in modo che l’ordine non
arrivasse, o personalmente estradando gli israeliti verso l’Italia, tanto è vero
che molti da Fiume passarono a Campagna, dove io ero Vescovo, sicché dalle mani
sue venivano poi alle mani mie; li aiutò in tanti modi, da poter riuscire a
salvare la vita di numerosissimi israeliti". Nell’intervista Mons. Palatucci
ricorda anche - presenti tanti ebrei da lui accolti - le occasioni in cui nel
campo di
Concentramento di
Campagna, alla presenza di autorità di Polizia parlò contro la legge
razziale, e su questo punto precisava: "Anzi, contro la legge razziale ho
parlato sempre, durante quegli anni della persecuzione degli ebrei e li ho
aiutati in tanti modi, poi col dare ad essi aiuti materiali senza limiti".
Palatucci e
lo zio Vescovo dunque si fecero in quattro per risolvere positivamente i
problemi degli ebrei; e se la via ufficiale incontrava grossi intoppi, Giovanni
trovava sempre un modo per far imbarcare clandestinamente i profughi su qualche
nave e farli arrivare sotto la protezione dello zio. Fino all’8 settembre 1943
il ponte sul fiume Eneo, che divideva il territorio fiumano dalle terre
Jugoslave controllate dall’esercito italiano, divenne il canale di salvezza per
migliaia di ebrei dell’Europa orientale e di tutte le regioni della Jugoslavia
sottoposte agli ustascia ed ai nazisti.
Un ispettore
catapultato nell’ufficio di Palatucci il 23 luglio 1943, trovò solo elenchi di
stranieri non residenti più in Italia da moltissimo tempo e ne trasse la
convinzione che il giovane funzionario non si fosse mai curato di seguire gli
stranieri con la dovuta vigilanza. A Palatucci giunse il biasimo per aver reso
praticamente inefficiente il servizio stranieri. L’ispezione, probabilmente, fu
la conseguenza dei rapporti non felici con i superiori.
"Gli ebrei
presenti a Fiume l’8 settembre 1943 erano 3500, in gran parte profughi della
Croazia e della Galizia. Con la creazione della Repubblica Sociale ed il
disfacimento dell’esercito italiano, Palatucci rimane solo in quella città a
rappresentare la faccia di un’altra Italia che non voleva essere complice
dell’olocausto. Nel novembre del 1943 il territorio di Fiume fu incorporato
nella Adriatisches Kustenland, che si estendeva dalla provincia di Udine a
quella di Lubiana. Era una vera e propria regione militare comandata dal
gauliter Friedrich Rainer che disponeva di poteri assoluti. Lo Stato italiano di
fatto in quel vasto territorio non esisteva più. A Fiume l’ufficiale tedesco,
che poteva decidere vita e morte di chiunque, era il Capitano delle SS Hoepener".
"In una
situazione disperata, Giovanni Palatucci decide di rimanere a Fiume e diventa
capo di una Questura fantasma, si rifiuta di consegnare ai nazisti anche un solo
ebreo, anzi continua a salvarne molti rischiando la vita. Il Console svizzero a
Trieste, che è un grande amico di Palatucci, lo mette sull’avviso che anche lui
è in pericolo e lo invita a trasferirsi in Svizzera. Palatucci aiuta ad
espatriare in svizzera la donna ebrea di cui era innamorato, ma rimane ancora a
Fiume: dice all’amico svizzero che non se la sente di "abbandonare nelle mani
dei nazisti gli italiani e gli ebrei di Fiume". Prende contatto con i partigiani
italiani e, sotto il nome di Danieli, concorda con loro un progetto, da far
giungere agli alleati, per la creazione, a guerra finita, di uno Stato libero di
Fiume. Nel febbraio Palatucci viene nominato, da uno Stato che non esiste più,
Questore reggente di Fiume. In questo modo però poteva aiutare gli ebrei solo
clandestinamente: fa sparire allora gli schedari, dà soldi a quelli che hanno
bisogno di nascondersi, riesce a procurare a qualcuno il passaggio per Bari su
navi di paesi neutrali. I nazisti, messi sull’avviso da spie, non fidandosi più
di lui gli perquisirono la casa. Palatucci ingiunge allora all’ufficio
anagrafico del Comune di non rilasciare più certificati ai nazisti, se non
dietro sua autorizzazione, allo scopo di conoscere in anticipo le razzie
organizzate dalle SS. Il Capitano Hoepener infatti organizza una grande retata
di ebrei: Palatucci però riesce a preavvertire gli interessati e li aiuta a
nascondersi. A questo punto il Capitano delle SS capisce di essere stato beffato
e anche i partigiani consigliano a Palatucci di lasciare Fiume; ma egli resta
ancora".
Il 13
settembre 1944 però, Palatucci venne arrestato dalla GESTAPO e tradotto nel
carcere di Trieste; il 22 ottobre poi fu trasferito nel campo di sterminio di
Dachau dove trovò la morte "a pochi giorni dalla Liberazione e a soli 36 anni,
ucciso dalle sevizie e dalle privazioni o - come anche fu detto - a raffiche di
mitra".
Di Giovanni Palatucci vogliamo ricordare ancora una parola detta nelle ore buie; sapendo che una donna ebrea era minacciata di imminente arresto, la affidò ad uno dei suoi colleghi dicendogli: "Questa è la signora Scwartz. Trattala, ti prego, come se fosse mia sorella. Anzi, no: trattala come se fosse tua sorella, perché in Cristo è tua sorella". Tanti anni dopo, quella signora è partita da Israele ed è andata sino a Fiume, per mettere un fiore davanti alla Questura in memoria di Giovanni Palatucci.
I
Riconoscimenti a Giovanni Palatucci
Gli ebrei di
Fiume sopravvissuti all’immane tragedia della guerra, delle persecuzioni e dei
campi di sterminio, collegandosi anche alle altre comunità superstiti, decisero,
a conclusione della guerra, di tributare alla memoria di Giovanni Palatucci una
degna commemorazione. Un gruppo di oltre 400 residenti in Israele - persone che
erano state salvate dal giovane funzionario - impegnarono in proposito l’ebreo
fiumano Rodolfo Grani. Si stabilì di dedicare al nome dell’eroico e fraterno
amico una strada ed un parco in Israele, nella città di Ramat Gan, presso Tel
Aviv. Mons. Palatucci apprese con gioia tale notizia e assicurò che "con immenso
piacere andrà in Israele , dove potrà rivedere gli amici conosciuti a Campagna
in quegli anni tristi: in Israele, sotto il suo magnifico cielo azzurro, nel
ricordo di un’anima eletta che per i figli di Israele si sacrificò".
Anche il
sindaco di Ramat Gan, Abraham Krinizi, in data 9 aprile 1953 invitò
ufficialmente a nome del Comitato commemorativo il Vescovo Palatucci e suo
fratello padre Alfonso, alle celebrazioni fissate in quella città per il 23
aprile.
La stampa, e
non solo quella israeliana, ne parlò diffusamente. Tra le note di fonte ebraica
quella di un settimanale stampato a Roma, "Israel", con un resoconto del
23-4-53, nel quale è tra l’altro detto che "Gli ebrei
fiumani in gran parte allo scoppio della guerra
furono internati a Campagna, dove hanno trovato salvezza e potente appoggio
nella valorosa persona di S. E. Mons. G. M. Palatucci, Vescovo, zio di Giovanni.
Si può dire brevemente che tutta la famiglia Palatucci faceva la gara di
salvataggio dei perseguitati ebrei".
La cerimonia
del 23, aperta dall’inno nazionale italiano e dall’inno israeliano, la "Hatikva",
si chiuse con la collocazione di 36 alberi lungo la stessa strada dedicata a
Giovanni Palatucci: uno per ogni anno della sua giovane vita terrena stroncata a
Dachau; toccò agli zii collocare i primi due alberi.
La strada dedicata a Giovanni Palatucci è oggi una delle più belle vie di Ramat
Gan (Città dei giardini), sulla strada principale Caifa - Tel Aviv (alle porte
di questa).
Per
iniziativa del Keren Kayemeth Leisrael, Fondo nazionale Ebraico, il direttore
del suo Comitato Centrale per l’Italia, Naftali, diede notizia a Felice
Palatucci, padre dell’eroe, di una nuova iniziativa commemorativa, che avrà poi
concreta realizzazione: la creazione sulla collina della Giudea, nei pressi di
Gerusalemme, di una foresta, che porterà il nome di Giovanni Palatucci. La
piantagione avrebbe avuto inizio nel decimo anniversario della sua morte, il 10
febbraio 1955.
La zona
scelta per la foresta è contigua a quella dove già sorge la "Foresta dei
martiri", in ricordo di tutti coloro che furono sterminati dalla furia nazista.
Il nome
di Giovanni Palatucci, è posto anche ai piedi di un esile alberello sul "Viale
dei Giusti"; "sulla breve salita che porta al Yod Vashem, al disadorno quadrato
di cemento su cui una grande distesa di lastre di pietre nere copre le ceneri
commiste delle vittime dei campi di annientamento".
Il 17 aprile
1955, sempre in occasione della ricorrenza della sua morte a Dachau, ed in
coincidenza con il X anniversario della Liberazione, una Medaglia d’Oro
venne concessa alla memoria di Giovanni Palatucci, dall’Unione delle Comunità
Israelitiche d’Italia con la motivazione seguente: "Commissario all’Ufficio
stranieri della Questura di Fiume, tanto operò in favore degli ebrei e di altri
perseguitati, che venne arrestato dai nazisti nel settembre 1944 e deportato in
Germania. Le sevizie e le privazioni del campo di sterminio, a Dachau, ne
troncarono, alla vigilia della liberazione, la mirabili esistenza. Se al suo
nome nello Stato
d’Israele
sono state dedicate una via ed una foresta, gli ebrei d’Italia vogliono
anch’essi onorarne il ricordo".
A
Giovanni Palatucci sono state inoltre dedicate altre strade e piazze nelle città
di Torino, Avellino, Genova e Montella, paese natio dell’eroe martire.
Ma mentre il
popolo ebraico non ha dimenticato, ed anzi ha ampiamente onorato questo eroico
personaggio che aveva scelto la sua via pericolosa in nome della sua fede in
Dio, lo Stato italiano lo ha ignorato per mezzo secolo. Un documento del
Ministero dell’Interno, datato 30 luglio 1952, in risposta ad una proposta
ufficiale di riconoscimento, testimonia infatti che nel fascicolo personale di
Giovanni Palatucci "non si sono trovati elementi che comprovino la attività dal
medesimo svolta in favore degli ebrei". Le congetture dei periti ministeriali
sono alquanto ridicole: come se l’attività svolta clandestinamente, e in quelle
condizioni, da Palatucci potesse figurare in un documento ufficiale, in un
fascicolo personale... a gloria futura.
Tuttavia, in
ottemperanza al proverbio "meglio tardi che mai", su proposta del Capo della
Polizia dott. Ferdinando Masone, dell’Associazione nazionale "Miriam Novitch" -
Comunità ebraiche italiane, e del comune
di Montella, il giorno 19 maggio 1995, in occasione della
festa della Polizia,
il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro ha
conferito la Medaglia d’Oro al merito civile alla memoria di Giovanni Palatucci.
Al momento del conferimento - in cui la figura
dell’eroe martire era rappresentata da una giovane Vice Commissaria
dell’Istituto superiore della Polizia di Stato - il Presidente Scalfaro ha
desiderato che la medaglia dalle sue mani passasse, per la consegna, a quelle di
Tullia Zevi, presidente delle Comunità ebraiche italiane. Presenti erano le
massime autorità dello Stato italiano.
La
Medaglia è ancora oggi custodita presso il Museo storico della Polizia di Stato.
Nel gennaio
precedente, sempre in occasione del cinquantenario della morte di Palatucci, c’è
stato un altro riconoscimento, sempre però da parte ebraica, alla sua memoria;
la cerimonia ha avuto luogo nella Questura di Avellino, alla quale è stata
consegnato un dipinto raffigurante l’eroe martire. Il dipinto è stato donato da
Georges de Canino, massimo pittore ebreo, il quale, con questa sua opera ha
inteso tributare alla sua memoria un atto di "amore e gratitudine" del popolo
ebraico nella sua terra natale, e propriamente nella sede della Questura.
La totale disponibilità dell’eroico giovane funzionario si ispirò senza dubbio ad uno spiccato senso civile del dovere e dello Stato e ad un elevato spirito di religiosa fratellanza. Questa specifica valenza religiosa ed ecumenica della sua azione e del suo olocausto, è stata attentamente osservata dalla Chiesa cattolica che oggi ha avviato, infatti, l’istruttoria per la beatificazione dell’indimenticabile "Questore di Fiume" che salvò la vita ad oltre 5000 ebrei.